di Paolo Andreola
Quella del Vajont, per me bellunese nato successivamente a quella spaventosa notte del 1963, è una tragedia che nella mente per molto tempo ha trovato spazio “per sentito dire”, una tragedia con cui per anni ho convissuto senza forse comprenderla appieno. Te ne hanno parlato i tuoi nonni, i tuoi genitori, le maestre alle elementari. Ogni 9 ottobre si ricorda quell’onda d’acqua causata da una frana caduta in un lago, su in alto, a Erto, che scendendo a valle ha portato via con sé la vita di molte persone.
Sei un bambino, la frana la consideri un evento naturale, le vite perdute le credi contabili sulle dita delle mani. E invece no.
Cresci, visiti la diga, leggi articoli e guardi documentari, maturi insomma. E scopri che quella fatalità con cui hai sempre convissuto in realtà ha dimensioni enormi, che la frana non si è mossa proprio da sola e che i morti sono quasi duemila.
La memoria assume un ruolo importante, bisogna ricordare come gli “errori” umani hanno cancellato paesi interi e le loro genti; musei, monumenti, ed eventi lo hanno fatto per anni e continuano a farlo.
Ma l’idea di creare una via ferrata che sale la gola del vajont, dove tutta quell’acqua ha preso velocità prima di abbattersi su Longarone, devo ammettere che la trovo assolutamente originale ed efficace al tempo stesso. Si parte poco sopra l’abitato di Codissago, qualche minuto di cammino nel bosco e ci si addentra in una serie di gallerie, quelle che portavano gli operai al cantiere della diga durante la sua costruzione. Una facile cengia conduce alla partenza vera e propria della via; i parapetti di acciaio arrugginito piegati verso valle lasciano lo spazio per una prima riflessione sulla violenza distruttiva dell’acqua che quella maledetta notte li ha ridotti in quello stato. Proseguendo, il percorso si dimostra subito molto esposto e verticale. Il vuoto sotto i piedi ci accompagnerà per quasi tutta la sua lunghezza, mentre la verticalità sarà a tratti sostituita da dei bellissimi traversi, alcuni privi di appoggi naturali. Cavi e ancoraggi nuovi di zecca, chiodi e staffe posizionati nei punti giusti danno sicurezza nella salita, che richiede comunque un po’ di coordinazione tra braccia e gambe per non affaticarsi troppo. La capacità tecnica richiesta non è elevata, ma non è certo il caso di testare su queste pareti se si soffre di vertigini. La vista della diga si fa desiderare, va sudata nel vero senso della parola; solo negli ultimi metri di dislivello la sua possente figura si mostra sullo sfondo. Dal terrazzino finale si gode di un punto di vista unico sulla frana ad “M “del monte Toc, sulla stretta gola del Vajont e su quell’imponente ed oramai inutile colata di cemento armato.
La soddisfazione per la conclusione del percorso lascia inevitabilmente spazio all’amarezza.












